Tato Russo e le maschere pirandelliane
La recensione della prima. Tato Russo traspone in versione teatrale il celeberrimo romanzo di Luigi Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”. Una versione che ha riscosso grande favore del pubblico che ha omaggiato la compagnia con lunghissimi applausi, alla fine della prima romana al Teatro Quirino il giorno 2 maggio. Lo spettacolo resterà in scena sino al 12.
Particolarmente apprezzabile la scelta del Teatro Quirino di proporre un altro spettacolo tratto da un grande romanzo del Novecento (dopo “La Coscienza di Zeno” di Italo Svevo andato in scena nelle prime due settimane di aprile,ndr).
Nei panni di Mattia Pascal un magistrale Tato Russo che ha anche curato l’adattamento teatrale della pièce. Asfissiato da frustrazioni in famiglia (un matrimonio infelice, la convivenza con una suocera invadente, il dissesto finanziario) Mattia decide di abbandonare la famiglia e partire. Solo quando si trova sulla via del ritorno verso casa apprende su un giornale la notizia del suo suicidio (come suo è stato riconosciuto da moglie e suocera il cadavere di uno sconosciuto). Decide quindi di costruirsi una nuova identità, quella di Adriano Meis.
Lo spettacolo ben rende l’idea pirandelliana dell’estraneità dell’individuo che si guarda vivere dall’esterno, sentendosi “forestiero della vita”, oppresso poi da valori e convenzioni che la comunità esercita su di lui. Rivela la difficoltà di far consistere il perenne fluire della vita in forme fisse e statiche.
Si punta l’attenzione sull’individuo, sull’essere, semplificando la scenografia al minimo, unico elemento che spicca sono le maschere indossate dagli attori a inizio e fine messa in scena. Pirandelliana, infatti, è dell’idea che l’uomo indossi delle maschere, possedendo non una, ma centomila identità. E probabilmente finendo per non possederne alcuna come Mattia Pascal/Adriano Meis che si ritrova, da vivo, a contemplare la propria tomba parlando di ciò che era stato.
Monica Menna